🌍 Correre per cambiare un destino

Storia di un uomo, un’agenzia di viaggi e un legame profondo con l’Africa.

Ci sono persone che corrono per sport, per superare i propri limiti, per sfuggire al caos della routine quotidiana.
E poi ci sono persone che corrono per qualcosa di più grande: per un senso di giustizia, per fratellanza, per cambiare il destino di qualcuno.
Questa è la storia di una di quelle persone.

L’ho incontrato per caso, a dei raduni di atletica, come le persone preziose che incontri nella vita e che, col tempo, diventano le tue persone e anche le persone a cui pensi quando cerchi un po di speranza nel mondo.


Ho voluto raccogliere le sue parole perché potessero ispirare chi, come me, crede che lo sport sia molto più che performance: sia strumento, voce, ponte. Ecco qui l’intervista a Tommaso Ravà.

Come è nato il tuo legame con l’Africa?
«Io l'Africa non l'ho scelta. Mi ci sono trovato, seguendo il lavoro di mia mamma e di mio papà.
Mio padre era medico, poi ha lasciato la professione per aprire un’agenzia di viaggi d’avventura, e da lì è iniziata una grande avventura familiare.
Da quando avevo due anni, trascorrevamo sei mesi all’anno in giro per l’Africa sahariana: Algeria, Niger, Mali, Mauritania, Chad.
Io e i miei fratelli siamo cresciuti lì. Abbiamo respirato l’Africa fin da piccoli, portando avanti questo stile di vita nomade, tra le sabbie e le piste rosse del deserto.
L’Africa è diventata la mia casa e il mio mondo, un mondo che ho vissuto da dentro e che continuo a frequentare anche oggi.»

E lo sport? Quando è entrato nella tua vita?


«Lo sport è sempre stato uno dei pilastri educativi della mia famiglia. Mio papà era un fanatico dello sport, e così ho praticato atletica fino ai 13 anni.
Poi è arrivato il pugilato, che mi ha accompagnato a lungo, prima di tornare alla corsa, quando i miei figli si sono affacciati a questo splendido mondo.
Anche in Africa non ho mai smesso di allenarmi, soprattutto in Chad, dove ho una piccola casa in un quartiere povero della capitale.
Correre è la cosa più semplice e accessibile: bastano un paio di scarpe. E così, tra un impegno e l’altro, uscivo a correre per le vie polverose del quartiere.»

Cosa ti ha spinto ad aiutare i ragazzi del posto attraverso lo sport? È successo qualcosa in particolare?


«La spinta è nata vedendo con i miei occhi la voglia dei ragazzi di allenarsi e la totale mancanza di risorse per farlo.
In Africa, anche nei ritagli di tempo, correvo con loro, e vedevo il loro entusiasmo.
Lo sport è uno strumento potente: è democratico, non guarda al ceto sociale, alla provenienza. Abbatte muri, crea legami.
Quindi ho iniziato a raccogliere attrezzatura sportiva in Italia, grazie alla fiducia di amici, atleti, allenatori.
Tutto è stato fatto in modo diretto: senza associazioni, senza burocrazia. Solo fiducia, cuore, e voglia di fare qualcosa di utile.»

Che significato ha oggi lo sport per te?


«Per me lo sport è la cosa più democratica che esista. Puoi essere miliardario o non avere nulla, ma quando corri… sei solo con te stesso.
Nessuna maschera, nessun privilegio: ciò che conta è quanto sei disposto a dare.
Ecco perché lo sport è stato il mezzo perfetto per il mio progetto di beneficenza.
Quando si suda insieme, si lotta insieme… si diventa fratelli d’anima.
Lo stesso mi capitava sul ring: dopo un allenamento duro, c’era un rispetto autentico che andava oltre ogni differenza.»

Raccontami del tuo progetto in Chad.


«La bellezza di questo progetto è che è nato spontaneamente, senza burocrazia, senza associazioni.
Alcuni atleti che mi conoscevano hanno deciso di fidarsi, di darmi materiale sportivo, qualcuno anche un piccolo contributo economico.
Io ho portato tutto giù direttamente, consegnandolo ai ragazzi. Questo ha reso tutto più veloce, più umano, più efficace.
In 40 anni in Africa ne ho viste tante, e purtroppo molte associazioni non riescono a essere davvero operative, perché hanno strutture troppo pesanti.
Invece qui, solo fiducia e cuore.
E oggi è una rete informale, fatta di persone vere. Spero che cresca, ma senza perdere la sua spontaneità.»

Hai un ricordo, una frase, qualcosa che ti è rimasto dentro?


«Sì, una frase che i ragazzi si ripetono sempre dopo gli allenamenti:
"On lâche rien, le mieux reste à venir."
Che significa: non molliamo un cazzo, il meglio deve ancora venire.
È un mantra. È la speranza incrollabile che, anche in un Paese poverissimo come il Chad, lo sport possa cambiare un destino.
E in alcuni casi è successo davvero. Come per Ali.
Ali era analfabeta, veniva da uno degli strati sociali più poveri del Chad. È venuto in Italia nel 2018, ha vissuto con noi per due anni. Poi è riuscito a entrare in un club di atletica in Francia, ha imparato a leggere e scrivere.
E oggi è un uomo diverso. Lo sport gli ha salvato la vita.»

E se qualcuno volesse mettersi in contatto con te per fornirti risorse o aiutarti con qualche contributo economico?
Instagram Tommyrav78 , instagram spazidavvantura info@spazidavventura.com / www.spazidavvantura.com

Se ti è piaciuta questa storia, condividila.
Perché quando si corre insieme, si cambia davvero qualcosa.

Avanti
Avanti

🧠 Mente e corpo: un’unica direzione